23 aprile 2009

Piera Aiello scrive a Napolitano

Piera Aiello ha scritto al Presidente della Repubblica il 15 aprile scorso. Pubblichiamo qui di seguito la sua lettera a Giorgio Napolitano.


Egregio Signor Presidente,

Chi Le scrive è Piera Aiello, tra le prime Testimoni di Giustizia contro la mafia, con Rita Atria, mia cognata, morta suicida per assenza dello Stato.

Imparentata giovanissima e forzosamente alla famiglia mafiosa degli Atria di Partanna, decisi di rompere con quel mondo - e con qualsiasi connivenza omertosa che esso cercava di impormi e pretendeva di poter esigere da me come da chiunque essi ritenessero “appartenesse”, come cosa priva di anima e capacità di determinazione, alla medesima famiglia - dopo l’omicidio, davanti ai miei occhi, di mio marito.

Egli era un personaggio violento che intendeva vendicare autonomamente ed illecitamente l’omicidio di suo padre; ma che trovò killer spietati a precederlo in quella ansia di faida sanguinaria. Fuggii da quel mondo con la mia piccola bimba Vita Maria, senza sapere a cosa andavo incontro né come avrei potuto vivere. Mi spingeva solo il desiderio di vivere una vita piena del “fresco profumo di Libertà” (come diceva Paolo Borsellino), quale ne fosse il prezzo da pagare.

Ebbi la fortunata ventura di incontrare, su questo mio percorso di rottura con tutto il mondo criminale che quella famiglia impersonava, il Giudice Borsellino dal quale tanto sia io che mia cognata Rita Atria – che mi aveva seguito nella difficile scelta di Testimone di Giustizia – abbiamo ricevuto lezioni di vita ed umanità profondissime.

Il dolore per l’omicidio del Magistrato e la sensazione di essere stata lasciata dallo Stato in qualche misura sola di fronte alla cupa vendetta che ogni mafia giura ai propri nemici, condusse Rita al terribile gesto del suicidio. Le nostre comuni scelte nel frattempo avevano già condotto in carcere molti dei personaggi criminali di cui avevamo rivelato le illecite attività.

Io ho cercato testardamente di vivere e tornare a vivere, pur condannata ad una condizione da “profuga” priva di identità, strappata dalle proprie radici affettive e territoriali, costretta in “località segreta” e priva di un’efficace e continuativa presenza dello Stato.

Ho avuto non poche, e sempre documentate, tensioni con i rappresentanti dello Stato responsabili dei programmi di protezione, a causa delle condizioni in cui veniamo spesso costretti noi – pochi – Testimoni di Giustizia: ciascuno con il suo personale calvario di vite sconvolte, di restrizioni, di misure di sicurezza “fatiscenti” e di una assenza praticamente totale di qualsiasi vero progetto di reinserimento sociale. Spesso ho dovuto lamentare, e con me altri Testimoni di Giustizia, che noi siamo stati trattati dallo Stato molto peggio e con minor rispetto di quanto non venga riservato invece ai cosiddetti – tanti – pentiti, che hanno saputo lucidamente lucrare anche sulla propria dissociazione – tardiva e tuttavia supinamente assecondata dallo Stato in ogni sua pretesa – dal crimine cui avevano ampiamente partecipato.

Ho voluto ciò nonostante ricostruire caparbiamente una mia vita personale fatta di affetti e di relazioni e di un lavoro che mi ridesse dignità di cittadina. Grazie al lungo legame con l’Associazione Antimafie “Rita Atria” che dall’anno scorso mi onoro di presiedere, ho incontrato amici per me importanti che sono stati il mio ponte verso la mia Terra: la Sicilia.

Grazie a queste relazioni ho potuto non rimanere cementata in una sorta di cadaverica “vita inesistente” in cui a qualche funzionario piacerebbe costringere questi scomodi ed insopportabili Testimoni di Giustizia, e sono riuscita a rimanere Testimone ancor più per gli ordinari Cittadini che non per lo Stato, perché le dure scelte di vita pagate da Rita, da me e da ogni altro Testimone di Giustizia potessero essere di stimolo ed esemplarità possibile e a volte doverosa anche per altri e non rimanere relegate in spazi di personalismi cui si possa rimanere impunemente indifferenti.

In questo percorso lo Stato è rimasto spesso amaramente assente, se non ha addirittura cercato – a causa di funzionari e politici per nulla sensibili e consapevoli dei drammi umani che si consumavano in ciascuna delle nostre vite – di costruire artificiose condizioni di ostacolo, negazione ed umiliazione del Testimone. Sono documentati, purtroppo, i poderosi scontri che ho dovuto sostenere con funzionari e sottosegretari, scontri che ho potuto reggere e sopportare solo grazie alla assistenza professionale ed umana del mio legale ed al calore ed affetto umano dei miei amici della Società Civile.

Pensi, Sig. Presidente che per lunghi periodi sono stata costretta ad utilizzare il Codice Fiscale di una carissima amica, che ho dovuto iscrivere mia figlia a scuola dicendo chi ero perché a Roma si erano dimenticati che avevo una bambina (se lo sono ricordato quando mia figlia era già in terza elementare) per i ritardi e la insensibilità dell’Ufficio Protezione. E non Le dico altro (come le vicende di proposte ignobili di compensazione dei beni posseduti), poiché tutto è documentato in atti, se mai Lei, o chiunque altro, volesse fare opportune verifiche.

Ma nonostante queste incredibili difficoltà ho sempre avuto un profondo rispetto per le Istituzioni (nel ricordo tragico ed esemplare del Giudice Borsellino), fino a maturare un grande affetto per gli uomini – poliziotti e carabinieri – deputati a garantire la sicurezza personale, mia e dei miei familiari, nelle varie circostanze di movimento e di copertura. Anche loro esposti, con me e per me, al maggior pericolo per inefficienze e irrazionalità istituzionali.

Ho sempre avuto coscienza che in tutte le Istituzioni vi sono uomini e donne che consumano le proprie vite per testimoniare l’esistenza e la nobiltà dello Stato accanto ad ogni Cittadino che intenda giocarsi per la Legalità Democratica, ma anche che al contempo vi sono altresì personaggi a dir poco sconcertanti. E gli angeli, sig. Presidente, talvolta sembrano davvero essere una piccola minoranza rispetto ai demoni.

Oggi, purtroppo, devo infatti registrare un ulteriore drammatico colpo alla mia volontà di poter credere allo Stato ed agli uomini dello Stato, poiché di fatto la mia “copertura” è saltata per colpa o superficialità e presuntuosa supponenza proprio di due uomini delle forze dell’ordine (per l’esattezza dell’Arma dei Carabinieri), anche se estranei (meno male) ai “Servizi di Protezione Testimoni”.

Nel documento allegato, e che intendo diffondere qualora non ci fossero immediate e coerenti risposte dello Stato a questa situazione kafkiana, Lei troverà tutto lo sconcertante percorso che ha determinato lo scempio di una realtà pur incerta e faticosamente costruita. Due uomini con scarsa sensibilità (c’è da sperarlo, per non dover credere ad una astuta e mimetizzata volontà di favorire piuttosto coscientemente i miei criminali avversari e potenziali attentatori) hanno sciupato forse irrimediabilmente un duro e sofferto percorso di ricerca di sicurezza e stabilità.

Io non so come e cosa sarà possibile ricostruire, a partire da questa nuova condizione. Forse dovrà cambiare comunque il modo stesso di pensare alle condizioni di vita dei Testimoni di Giustizia e della cultura della Sicurezza che lo Stato dovrebbe garantire. Ma quali che siano i futuri scenari del rapporto tra lo Stato e questa Testimone di Giustizia, io credo fermamente che sarebbe comunque necessario che i due uomini di stato in questione rispondessero pienamente, severamente, formalmente e pubblicamente del loro comportamento.

Io, ancora una volta, non posso e non voglio che aspettare Giustizia. Vede, Sig. Presidente, noi Testimoni possiamo solo contribuire a fare Verità, perché mai più di ora è solo lo Stato ad essere chiamato e ad avere gli strumenti per fare Giustizia. La sola Verità senza Giustizia è solo la pia illusione di una condizione umana e dignitosa di convivenza civile. Ma la sola Giustizia privata della Verità è solo la finzione di un potere che intenda esercitare le sue prerogative per il proprio esclusivo tornaconto e contro il Diritto dei Cittadini ed in spregio della Verità.

Se mi sono decisa a scrivere alla Sua Persona ed alla Sua Alta Magistratura è perché la stima per l’Uomo oggi Presidente della Repubblica e la testarda fiducia nelle Istituzioni dello Stato, mi fanno sperare che sappiano esserci interventi Istituzionali in grado di evitare allo Stato la umiliazione di essere pubblicamente discreditato per responsabilità personali di uomini indegni se non ignobili.

Attendo dunque fiduciosa un Suo cenno, Sig. Presidente, se lo riterrà opportuno e legittimo, nell’ambito delle prerogative del Capo dello Stato, per essere confortata piuttosto che rassicurata. Infatti nella mia convinzione che sia giusto essere pronti e disponibili a pagare dei prezzi altissimi per la personale, connaturale e consapevole scelta di dissociazione da ogni tentazione di collusione alla cultura criminogena e criminale imperante, è altrettanto giusto che questi prezzi non siano dovuti alla stoltezza di alcuni indegni uomini delle forze dell’ordine.

Lei saprà, nel caso volesse dare risposta (quale essa sia) a questa mia lettera, come e attraverso quali percorsi e quali funzionari, farmi giungere il Suo atteso messaggio di conforto e di rinnovo di speranza nella Dignità Costituzionale di questo Paese. Speranza ridotta oggi, mio malgrado mi creda, al lumicino.

Con profondo rispetto e non celata speranza, La saluto da Cittadina Democratica e Donna Antimafia dal fronte della Verità, in attesa di Giustizia.


Piera Aiello

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